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Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione ha precisato che il medico specialista ha gli stessi doveri professionali del medico di reparto al quale il paziente è affidato.

 

Il caso

 

Il medico curante, dopo aver visitato un suo paziente per febbre alta, lo invitava a recarsi al Pronto Soccorso. Dopo i primi accertamenti, il medico del Pronto Soccorso, ultimato il turno, rimetteva il paziente al collega del turno successivo.

Veniva inoltre contattato il neurologo, il quale, refertando la TAC, diagnosticava una possibile meningite. Senza alcuna iniziale terapia, lo specialista raccomandava il trasferimento del paziente in una struttura dotata di apposito reparto per malattie infettive e i curanti, senza altri approfondimenti specifici, lo trasferivano in codice rosso.

Le omissioni e i ritardi contestati cagionavano al paziente una lesione tale da porne in pericolo la vita stessa e un residuo decifit dell’udito da meningite pneumococcica non diagnosticata tempestivamente.

Il caso finiva in Tribunale, che dichiarava la responsabilità del medico del Pronto Soccorso (per non aver prescritto e attuato la terapia antibiotica e per aver omesso esami essenziali, pur sapendo della diagnosi formulata dal medico precedente) e lo condannava al risarcimento dal danno.

In secondo grado, la Corte d’Appello, confermando la sentenza di prime cure, precisava che il dovere professionale del medico specialista che voglia andare indenne da responsabilità, non si limita alla mera diagnosi, ma si estende alla tempestiva prescrizione di una adeguata terapia, che lo stesso dovrà somministrare personalmente o verificare comunque che sia effettivamente somministrata da altri colleghi.

 

L’interpretazione della Corte di Cassazione

 

Investita della vicenda, la Suprema Corte tracciava chiaramente i canoni della responsabilità professionale, atteso che, di fronte a una sospetta meningite, i sanitari avrebbero comunque dovuto preoccuparsi, per tradurre in concreto il paradigma dell’arte medica, della urgente somministrazione della cura antibiotica, a prescindere dalla prescrizione dello specialista.

In altre parole, e più in generale, gli Ermellini considerano la struttura ospedaliera come una “cintura di protezione” che avvince tutti i sanitari coinvolti nella gestione del paziente, sancendo un principio che equipara la soglia di diligenza qualificata del medico specialista a quella del medico di reparto a cui il paziente è affidato.

In quest’ottica, lo specialista non potrà esimersi da responsabilità eccependo di essere stato chiamato “solo” per un consulto di “secondo livello”.

Ed è proprio in virtù di questa ineludibile “cooperazione multidisciplinare” che la Corte di Cassazione, quando valuta casi di malpractice medica, riafferma la responsabilità dei singoli operatori, sia pure nel quadro della più ampia organizzazione della struttura alla quale si affida (e di cui si fida) il paziente, dovendo fare comunque, tutti e ciascuno, l’interesse del paziente, con gli stessi doveri professionali.

Doveri che la Cassazione ritiene soddisfatti solo se il medico:

  • conosce e valuta l’attività precedente o contestuale svolta da un altro collega
  • ne verifica la correttezza e adeguatezza, e
  • vi pone eventualmente rimedio, in caso di errori evidenti e non settoriali, rilevabili ed emendabili con l’ausilio di comuni conoscenze scientifiche del “professionista medio”, assunto dalla Corte quale paradigma di valutazione.

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