Con una recente sentenza le Sezioni Unite della Corte di Cassazione si sono soffermate sulla compatibilità dei danni punitivi con il nostro ordinamento, così riportando in auge un argomento che, da sempre, accende l’interesse di dottrina e giurisprudenza.

I danni punitivi, o punitive damages, fanno sì che l’ammontare totale del risarcimento riconosciuto al danneggiato comprenda, oltre alla compensazione del danno subito, una somma ulteriore, dovuta da colui che ha agito con dolo o colpa grave, quale “punizione” per aver tenuto una condotta illegittima.

Una responsabilità, quindi, del tutto slegata dall’esistenza di un vero e proprio danno, che trasloca in ambito civilistico quella pretesa punitiva normalmente confinata nel perimetro della responsabilità da reato.

La connotazione quasi “parapenale” del danno punitivo ha a lungo incontrato l’ostilità della Suprema Corte, arroccata in una visione monofunzionale della responsabilità civile, deputata esclusivamente a restaurare la sfera patrimoniale del soggetto leso.

Posizione criticata dalla letteratura giuridica, che ha subìto un primo significativo revirement con la sentenza n. 9100/2015, in cui la Suprema Corte, tornando sui propri passi, ha ammesso che la funzione sanzionatoria del risarcimento del danno non sarebbe incompatibile con i principi generali del nostro ordinamento.

Su questa scia si inserisce la pronuncia dello scorso luglio, che definisce ”polifunzionale” il risarcimento del danno, stabilendo chiaramente come, accanto alla finalità compensativa della responsabilità civile, abbiano diritto di cittadinanza anche la funzione preventiva-deterrente e quella sanzionatorio-punitiva (propria, per l’appunto, dei punitive damages).

Grazie a questa impostazione, le Sezioni Unite hanno finalmente potuto riconoscere efficacia esecutiva a una sentenza americana contenente una condanna risarcitoria a titolo di danni punitivi.

Non è mancato però un caveat dagli ermellini: il danno punitivo può essere riconosciuto solo a condizione che sia, da un lato, proporzionale al risarcimento compensativo e alla condotta censurata e, dall’altro lato, perimetrato nel quando e nel quanto da una norma di legge.

Si tratta di considerazioni condivisibili, alla luce delle quali può essere riletta una serie di norme presenti nel nostro ordinamento, che già strizzavano l’occhio alla categoria dei danni punitivi, quali, ad esempio, gli interessi per il ritardo nei pagamenti nelle transazioni commerciali di cui al d. lgs. 231/2002, ovvero il secondo comma dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, secondo cui la misura del risarcimento non può essere inferiore a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto.

La speranza è che da oggi, grazie al nulla osta della Corte, la ulteriore categoria di danno in questione possa trovare più ampia considerazione anche da parte del legislatore, così permettendo al danneggiato di ottenere il risarcimento di tutti quei fastidi e disagi difficilmente misurabili (e monetizzabili) o che comunque non vengono affatto ristorati dalla mera reintegrazione della sfera patrimoniale.

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